UN AMLETO ATTUALE E SENZA TEMPO PER GLI SPETTATORI CATANESI

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Al Teatro Coppola di Catania è andato in scena Amleto di William Shakespeare, per la regia di Nicola Alberto Orofino

La riapertura del Teatro Coppola -Teatro dei Cittadini, rimasto a lungo chiuso a causa dell’emergenza pandemica che ci ha colpiti nel 2020, è stata battezzata dalla messa in scena, nelle date del 18, 19, 20, 26 e 27 novembre, di una reinterpretazione inedita dell’Amleto di Shakespeare, firmata da Nicola Alberto Orofino. Il regista, classe 1980, ha curato la regia di diversi spettacoli tra cui: “Il libertino”, “Ciano”, “Giulio Cesare”, “Tartufo”, “Misantropo”. Al Teatro Stabile di Catania cura la regia di “La Bottega del Caffè”, “Il Gabbiano”, “Pietra di Pazienza”. Dal 2009 collabora con l’Istituto di Cultura Italiano di New York e l’Università di Princeton. In molti suoi spettacoli Orofino propone una rilettura in chiave contemporanea dei classici della letteratura teatrale. La sua cifra stilistica è caratterizzata da una verve rivoluzionaria e pop.

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La prima scena del suo Amleto si apre con la stessa atmosfera fosca e lugubre di cui leggiamo all’inizio della tragedia shakespeariana. Atmosfera ben resa dalla maestria degli attori, dalle musiche scelte in maniera oculata ma anche dall’ambiente scarno, vuoto e in penombra del Teatro Coppola. Le scene successive ci regalano dialoghi schietti e brillanti, che sono ben lontani dall’alone lirico-tragico che contraddistingue l’opera ma nulla tolgono all’intreccio della vicenda, che è una tragedia e si conclude come tale, bensì ne valorizzano l’innegabile attualità.

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«Amleto rappresenta il dramma dell’uomo contemporaneo. L’incapacità di rispecchiarsi nel mondo che lo circonda, l’insoddisfazione, la voglia di fuggire che lo accomuna ai tanti giovani che decidono di andare lontano: all’interno della tragedia Amleto ne vive un’altra personale e privata. Assalito dai dubbi, questi rinuncia al topos della vendetta, non si piega alla logica del suo mondo che gli impone di vendicare il padre ucciso dallo zio e vive un suo dramma esistenziale».

Queste le parole del regista Nicola Alberto Orofino, che ha seguito proprio la strada del testo esistenziale per mettere in scena il suo Amleto, e ha operato una serie di scelte creative e tecniche volte a rendere attuale una storia segnata da intrighi, corruzione, decadenza politica e corsa al potere, mali che appartengono anche al nostro tempo e contesto storico, e finalizzate a far sì che gli spettatori potessero rispecchiarsi nei personaggi.

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Gli attori si presentano infatti al pubblico indossando indumenti che ancora ritroviamo nell’inventario del ventunesimo secolo, ma che allo stesso tempo sono degli evergreen, non appartengono a un decennio piuttosto che a un altro, sono intramontabili e quindi senza tempo. Un esempio è il classico abito maschile completo di giacca e cravatta, “divisa da lavoro” indossata anche e soprattutto da uomini di successo o che occupano i gradini più alti del potere. Non a caso un costume simile è stato sfoggiato dall’istrionico attore Francesco Bernava che ha interpretato magistralmente e con ironia il ruolo del perfido Re Claudio. Anche la scenografia che fa da sfondo ai personaggi è senza tempo, non ha nessun elemento che possa indicarci in quale secolo o decennio siamo stati catapultati noi spettatori. È scarna ed essenziale, come il plot, e potenziata da un sapiente gioco di luci.

Tutti noi possiamo identificarci in due giovani disperati e fragili come Amleto e Ofelia, che si trovano nella posizione di dover affrontare lutti e difficoltà troppo grandi per loro, ma anche delusioni comuni ad ogni adolescente. In questo spettacolo Ofelia non è solo la ragazza che manifesta la sua follia cantando e parlando sconnessamente, a causa delle tragedie che le sono piovute addosso, ma è quasi una bambina. Indossa le treccine e una maglietta scollata e tenta di placare il dolore per la sua delusione d’amore mangiando cioccolata. Come non riconoscere in lei tante ragazzine ingenue e vulnerabili che incontriamo tutti i giorni, o che addirittura conosciamo? A vestire i panni della protagonista è Roberta Amato, che ha tirato fuori un’emotività intensa ma ben bilanciata dalla sua padronanza tecnica, in una performance impeccabile. Roberta Amato recita fin dai tempi delle scuole superiori, ed è autrice di testi teatrali, come ad esempio “La felicità“, scritta con Giorgia Boscarino e diretta da Orofino.

Il ruolo del principe di Danimarca è stato interpretato da Gianmarco Arcadipane, diplomato nel 2010 all’Accademia del Teatro del Tre di Roma con sede a Catania. Ha studiato recitazione cinematografica presso lo Studio Emme di Roma. Ha lavorato nel settore pubblicitario e collezionato diverse esperienze teatrali di spessore, collaborando anche col Teatro Stabile di Catania, ed esperienze cinematografiche importanti insieme ad artisti del calibro di Giuliana De Sio e Massimo D’Apporto. In questa pièce ha versato totalmente il talento e l’esperienza nel suo personaggio, dimostrando una vigorosa potenza evocativa, regalandoci un Amleto anche brillante, grazie a delle battute comico-tragiche che, insieme a una gestualità e timbrica vocale ben studiata, sottolineano ancora una volta l’esasperazione e la disperazione del protagonista di fronte all’assurdità degli eventi che subisce, la stessa assurdità che caratterizza la condizione umana e che fa dell’Amleto un testo dalle forti tinte esistenzialiste. Ma a rendere innovativo questo Amleto è stata anche una precisa scelta di regia: Arcadipane, durante il celeberrimo monologo di Amleto, non guarda verso il vuoto tenendo in mano il teschio e parlando a sé stesso, ma si rivolge, guardandoli negli occhi, agli spettatori seduti in circolo. È uno di noi, ed è quasi come se proprio da noi che veniamo ad assistere alla tragedia volesse essere salvato. La struttura circolare delle sedute voluta per questo allestimento al Teatro Coppola, che rievoca quella del teatro greco del quinto e del quarto secolo a.C. e si rifà a quella del teatro elisabettiano cui era aduso Shakespeare, ha favorito questa fusione fra pubblico e attori contribuendo, insieme al talento degli attori ed alle scelte scenografiche e di regia, a quella catarsi che in fondo è la mission del teatro sin dalle sue origini.

Un’altra scelta del regista è stata di affidare due ruoli maschili a delle attrici donne, per dare la possibilità ad ogni attore di creare un personaggio nuovo unico. Polonio diventa una madre calcolatrice e anaffettiva che strumentalizza la figlia, Ofelia, per scoprire la verità sull’improvvisa follia, ed è interpretata dalla briosa attrice Carmela Silvia Sanfilippo, dotata di grande maestria e presenza scenica. Nel ruolo di Orazio vediamo Alice Sgroi, attrice acclamata dalla critica, membro e cofondatrice dell’associazione MezzARIA Teatro insieme al collega Francesco Bernava, con cui ha messo in scena lo spettacolo teatrale “Aquiloni”, vincitore del premio Nazionale Teatro Città di Leonforte 2017, per la regia di Nicola Alberto Orofino, e alla collega Roberta Amato, con la quale ha scritto e messo in scena lo spettacolo “Dicotomie”. Durante la sua carriera si è destreggiata in ruoli molto diversi fra loro, rivelando versatilità, potenza espressiva, e un temperamento acceso che travalica la quarta parete. Al suo Orazio è affidato il messaggio finale davanti alla sconfitta di tutti i personaggi, che cadono uno dopo l’altro nella dimensione del “non essere”, e il loro trapasso è segnato con il gesto, voluto dal regista, di porre la maschera bianca che dapprima ha solo lo spettro sul volto di ogni personaggio caduto. Questo gesto è accompagnato da una canzone metal-rap. La canzone con cui si conclude la pièce è “Una storia sbagliata” di Fabrizio De Andrè, che rispecchia l’idea di fondo che ha guidato Orofino, quella di raccontare una storia che è una sorta di giallo d’inchiesta dove forse c’è un solo colpevole, ma in fondo non ci sono né vincitori né vinti.

Oltre agli attori citati abbiamo visto Luigi Nicotra, che ha recitato anche nel Gigi Proietti Globe Theatre, Silvano Toti, e Alberto Abadessa, attore, performer e liricista tecnicamente preparato e dalle comprovate capacità drammaturgiche. I due hanno recitato nei panni rispettivamente di Rosencrantz e Guildestern. Luigi Nicotra ha interpretato anche il ruolo di Laerte. L’encomiabile e affascinante Lucia Portale ha vestito i panni della regina Gertrude. Sul finale Amedeo Amoroso, un giovane attore di solo sedici anni, ha interpretato, insieme ad Abadessa, il ruolo di un becchino disincantato, che davanti alla tomba di Ofelia scherza sulla sua morte con un sorriso da clown e ci regala perle di autentico black humour che, favorendo il meccanismo dello straniamento, esorcizzano di fatto l’idea della morte e soprattutto quella del suicidio.

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Le scene e i costumi sono stati affidati a Vincenzo La Mendola. A cooperare con Nicola Alberto Orofino alla regia è stata Gabriella Caltabiano. La direzione tecnica è stata affidata ad Arsinoe Delacroix e Asia Santoni. Un prezioso contributo come assistente tecnico è stato dato da Francesco Rizzo. Del lavoro di sartoria si è occupata Grazia Cassetti. Della comunicazione Elena Maiorana.

Si auspica che questo spazio dedicato ai cittadini possa continuare ad offrirci proposte nuove, giovani e diversificate. E che sia una fucina per quel teatro che non smette mai di osare.