L’ANTOLOGIA DI SPOON RIVER A MAZZARA DEL VALLO

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Il 28 agosto in scena al Giardino dell’Emiro. Il regista Bonagiuso: «In tempi di fragilità umane, fare arte è un dovere»

Giacomo Bonagiuso, filosofo, regista e studioso di filosofia e antropologia, ci invita ad assistere alla nuova data della sua opera teatrale “Luminaría”, ispirata all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che avrà luogo il 28 agosto, ore 21, al Giardino dell’Emiro, a Mazzara del Vallo,

Composta nel 1915, “L’Antologia di Spoon River” celebra in versi la vita dei residenti dell’immaginario paesino di Spoon River, adesso sepolti nel cimitero locale.

La raccolta arriva in Italia grazie a Fernanda Pivano, scrittrice e allora traduttrice, sotto la guida di Cesare Pavese, della raccolta poetica, e Fabrizio De André che con il celebre album “Non al denaro, non all’amore né al cielo” del 1971, immortala una serie di personaggi che diventeranno i più noti nell’immaginario musicale italiano comune: il giudice, il chimico, il malato di cuore, il suonatore Jones etc…

La grandezza di Edgar Lee Masters risiede nella capacità di rimettere il tema della morte al centro della meditazione contemporanea non come anatema o spauracchio ma come consapevolezza di una rimozione; l’Occidente ha rimosso la morte: non la ha né superata, non l’ha elaborata né tantomeno risolta. Quando ho chiesto al regista perché avesse sentito l’esigenza di riscrivere uno dei capolavori fondanti della letteratura inglese, ha risposto:

«Abbiamo rimosso ciò che non comprendiamo. Ciò che ci smuove è altro, adesso: successo, denaro, potere, ruolo, riconoscimento. Ma il senso dell’esistenza si misura proprio a partire dal suo limite, perché senza morte non esiste la vita. Ecco, credo che raccontare questa storia in teatro sia un elemento di novità e di necessità: il covid, le guerre e le malattie del terzo millennio hanno reso ancora più visibili le fragilità umane. La paura predomina e l’antidoto alla paura è la narrazione, il racconto: fin dagli esordi, il teatro ha sempre fatto da specchio all’umanità per aiutarla a esorcizzare le nostre paure e con questo nostro spettacolo, esso continua a farlo. O almeno ci prova».

Ma perché un titolo così radicalmente (almeno a prima vista) diverso da quello dell’opera a cui si fa riferimento? L’autore decide di battezzare la propria opera, “Luminarìa”, in omaggio alla sua lingua madre, il siciliano arcaico, concepito come una forma di nuova classicità. L’intero spettacolo è un mix di siciliano letterario e profondo italiano volgare, che diventa un’unica nota alle orecchie dello spettatore che opera da collante in grado di passare dall’ilarità alla tragicità della morte segnando il paradosso come naturalità dell’esistenza. Il siciliano è la lingua della pancia, del ventre, che esprime la forza letteraria con la forza dovuta. Il suo è anche un siciliano creativo, non immobile, che lavora su figure retoriche e ritessiture stilistiche, ed è per questo che ha sentito il dovere di spostare l’accento sulla parola che compone il titolo della propria opera, che, secondo i dettami della lingua siciliana, dovrebbe appartenere sulla prima “a”, e che invece Bonagiuso fa ricadere sulla “i”, coniando un nuovo termine: “Luminarìa”, mettendo l’accento sulla vitalità delle parole, sul loro trasformismo e capacità d’evoluzione.

«Cos’è che ci spinge a fare ciò che facciamo? – aggiunge Bonagiuso – La nostra ricerca linguistica e la nostra cifra teatrale rappresenta un metodo che in tanti accolgono e apprezzano. Questo ci riempie di gioia ma ci assegna anche un compito etico: non trasformare mai il teatro in intrattenimento ma assegnargli sempre un compito civile, legato al risveglio delle coscienze, al ritrovamento delle condizioni di esistenza delle persone. Insomma: noi non scriviamo teatro e allestiamo teatro come un passatempo ma come una vera necessità. Crediamo che sia fondamentale raccontare queste storie per cosa dicono e per come lo dicono. La forma è una materializzazione della sostanza. Il teatro è un rito, ha regole e movenze: si fa con cuore e testa. E coinvolge, sempre, tutto».

La regia di Bonagiuso mette in scena 18 non-attori (come ama definirli lui), ossia persone che provengono non solo dal mondo dell’arte ma che sperimentano il gioco serissimo del teatro dopo un lungo training e un fruttuoso laboratorio di costruzione e montaggio drammaturgico. 
Lo spettacolo si avvale delle luci Primafila e del videomapping di Benito Frazzetta. Le musiche di scena sono di Francesco Less. Costumi e painting di Rosanna Scaturro. Foto di scena di Giacomo Moceri.